G. Vissio, Storia e discorso politico. Nota introduttiva
Storia e discorso politico. Nota introduttiva
G. Vissio
Il passato è inutile, persino dannoso, se non trova il proprio valore in rapporto alla vita. Questo è, in fondo, ciò che già Friedrich Nietzsche constatava nella famosa Seconda considerazione inattuale, interrogandosi sull’utilità e sul danno della storia per la vita e rilevava come il passato potesse assumere per l’uomo la figura di un impedimento. «Immaginate l’esempio estremo», scriveva il filosofo, «un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire» e, travolto dal fluire di ogni cosa, ne rimarrebbe sommerso e paralizzato e «quasi non oserebbe più alzare il dito»[1].
L’eccesso di passato impedisce l’azione, appesantisce la vita sino al punto di ostacolarne il movimento verso la propria realizzazione nel presente. La formazione di Nietzsche, com’è noto, era quella di un filologo e l’epoca della sua produzione intellettuale, l’ultimo terzo del XIX secolo, è un’età certo molto sensibile alla storia e al fascino del passato. Le Considerazioni sono, nel loro intento, una sfida alla cultura europea e tedesca del tempo e tuttavia, sebbene appaia forse impossibile seguire oggi Nietzsche sino alle sue estreme conclusioni, il problema posto da Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben non sembra troppo distante da alcune questioni contemporanee. Le «catastrofi» novecentesche, così come le ha chiamate E. J. Hobsbawm[2], hanno trasformato il rapporto con il passato in un nodo problematico che non è più di pertinenza esclusiva dello storico, ma che invoca, invece, una soluzione di natura politica e pubblica. Non si tratta solo di fare i conti con quel «passato che non passa»[3] che ha dato vita all’Historikerstreit, ma di riprendere in considerazione un più generale rapporto della politica e dello spazio pubblico con il passato. Da un lato, infatti, non è solo la storia relativamente recente delle vicende del XX secolo a porre la questione; sempre di più la storia delle classi sociali subalterne, la storia di genere, i post-colonial studies portano al centro della scena storie di personaggi un tempo senza voce, che rivendicano oggi non solo il ruolo di testimoni, ma talvolta anche quello di protagonisti delle vicende del passato. D’altro canto, l’emergere di queste voci assume non di rado un tono di accusa: a parlare sono allora le vite di donne e uomini emarginati, esclusi, di comunità cancellate dalla storia, di popoli e identità che rivendicano il proprio diritto a un riconoscimento che non può in alcun modo risolversi sul piano scientifico della storiografia. Non è solo la storia, intesa come campo di lavoro dello storico, a essere chiamata in causa, ma anche la memoria, da intendersi come un luogo non tanto e non solo di verità, ma di giustizia.
È in questo complesso nodo di questioni che la storiografia incontra la filosofia o che, per meglio dire, la riflessione filosofica riscopre nella storia un proprio terreno di indagine. Il problema non si pone tanto, in tal senso, come questione di filosofia della storia – almeno non nel suo senso classico –, ma piuttosto come tema etico-pubblico. Si tratta di riconoscere la necessità di una riflessione capace di prendere in carico la portata delle diverse forme del discorso sul passato, distinguendo, sul piano epistemologico, le diverse pretese di verità che queste rivendicano e comprendendo, sotto il profilo etico e politico, le ricadute che esse presentano in termini di giustizia e di configurazione dello spazio pubblico. In tal senso, il problema di cosa e come ricordare appare oggi al centro dello spazio pubblico europeo e globale come questione di importanza vitale per le società democratiche. Lo storico, come ben ammoniva il Marc Bloch dell’Apologia della storia, non è un giudice, ma ciò non toglie che il passato richieda di porre la questione della giustizia[4].
È precisamente nello spirito di questo incontro tra questioni storiografiche e problemi genuinamente filosofici che questo numero della rivista Lessico di etica pubblica intende dunque indagare il nesso tra storia – nel duplice significato res gestae e di historia rerum gestarum – e discorso politico. Per questa ragione contribuiscono alla presente pubblicazione tanto storici di professione, che hanno accettato di riflettere sulla propria disciplina e sulla propria pratica specialistica, quanto filosofi interessati ai profili etico-pubblici del rapporto tra il passato e la sfera pubblica contemporanea.
La prima parte del numero monografico, che raccoglie saggi su questioni teoriche di portata più generale, si apre dunque con una riflessione di Diana Napoli, il cui contributo affronta – a partire dal caso classico della Shoah e sulla scorta di riflessioni di storici professionisti come Saul Friedländer e Raul Hilberg e della filosofia di Paul Ricœur – la necessità di una riflessione storiografica sul tema della memoria e sulle difficoltà poste dal compito dello storico di fornire una rappresentazione del passato. La memoria è al centro anche del contributo di Graziano Lingua, che affronta la questione della pratica, sempre più diffusa e ricorrente, delle scuse di stato e delle richieste di perdono da parte delle istituzioni, nei confronti dei crimini collettivi del passato. Il saggio propone così un’analisi che, muovendo dalle riflessioni filosofiche di Ricœur e di Jean-Marc Ferry, cerca di evidenziare i profili di ordine morale e politico di queste pratiche. La sezione prosegue con il contributo di Jeffrey Andrew Barash, che insiste sulla questione della memoria collettiva nelle sue ricadute sulla configurazione dello spazio pubblico, analizzandone il rapporto nel contesto delle società contemporanee, fortemente segnate dal modello comunicativo dei mass media e della «breaking news». Ne emerge una presenza pubblica del passato che potremmo definire come fortemente evenemenziale, dove l’evento assume un rinnovato e problematico significato nella costruzione della memoria collettiva. A chiudere la sezione troviamo invece il contributo dello storico Giuseppe Sergi che, analizzando l’interessante caso del significato politico degli stereotipi sul medioevo, trae importanti conclusioni generali sul rapporto, ancora difficile, tra la ricerca storiografica e la cultura diffusa. Sebbene la prima si sia ormai da tempo, e con successo, da quella «responsabilità di indirizzo dell’opinione pubblica» che rischiava di minarne la qualità scientifica, la seconda non appare ancora pronta e sufficientemente matura per accogliere i risultati della storiografia, preferendo, in definitiva, un passato «immaginato, tramandato e frainteso».
La seconda parte del numero accoglie invece una serie di studi di argomento più circoscritto, che analizzano il tema generale attraverso prospettive particolari e specifiche. Il saggio di Roberto Rossi muove da uno studio di caso centrato sulle narrative della Resistenza nel recente dibattito pubblico italiano. Il contributo, che mette in campo un apparato concettuale debitore delle riflessioni di Jean-François Lyotard e di Alasdair McIntyre, utilizza il caso della Resistenza come occasione per interrogare i rapporti tra le pretese di verità dei dispositivi narrativi e le loro implicazioni morali e politiche in seno allo spazio pubblico. Sul caso dei nazionalismi contemporanei e del loro rapporto con la memoria si concentra, invece, l’articolo firmato da Gloria Frisone, che propone il concetto di «società della commemorazione» come chiave di lettura del ruolo della vittima nei processi di costruzione dell’identità collettiva e di legittimazione del potere negli Stati contemporanei. La sezione prosegue con il contributo di Valentina Altopiedi, dedicato a un caso di storia di genere, quello di Olympe de Gouges, autrice della Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, e oggetto di una complessa, quanto interessante, vicenda storiografica. La ricezione della figura di de Gouges nella storiografia del passato e in quella contemporanea – da dissoluta e folle eccentrica a anacronistica e romanzesca femminista ante litteram – diviene così un modo per mostrare in quanti e quanto diversi modi il presente possa distorcere la rappresentazione del passato. Spostando l’attenzione sul caso della ricerca storiografica italiana in tema di psichiatria, il contributo di Fabio Milazzo propone invece una ben informata e documentata ricognizione sull’argomento, che mette in luce, in questo ambito, «la permeabilità degli studi e delle interpretazioni alle spinte e alle suggestioni del contesto sociale e politico». Ne emerge una rinnovata consapevolezza, di natura più generale, sulla necessità, da parte della storia, di assumere un ruolo centrale nel discorso pubblico, anche attraverso un lavoro di divulgazione e di socializzazione del sapere storico al grande pubblico, che appare ancora tutto da compiere. Precisamente nel senso di una giustificazione filosofica del ruolo didattico ed educativo svolto dalla comprensione storica muove invece il saggio di Bianca Bellini che, sulla scorta della riflessione di Hannah Arendt, propone un’analisi che pone al centro il nesso fondamentale tra comprensione storica e agire politico. Seguendo una prospettiva di matrice schiettamente filosofica, invece, il contributo di Giacomo Pezzano, che chiude la sezione, offre un commento critico a I figli impossibili della nuova era di Peter Sloterdijk. A partire da un penetrante confronto con il testo e dalla considerazione che spesso il tentativo di instaurare il nuovo e di liberarsi del passato muova verso un’antichità ancora più remota, il saggio affronta il difficile tema dell’eredità e approda, nelle sue conclusioni, alla proposta di un nuovo rapporto con il passato, che si liberi di una problematica concezione mono-dimensionale, a favore di una nuova e più complessa, ma anche più promettente, idea di «passati multipli».
[1] F. W. Nietzsche, Opere Complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di S. Giannetta e M. Montinari, vol. III, Tomo 1, p. 264.
[2] E. J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991 (1994), tr. it. di B. Lotti, Rizzoli, Milano 2014.
[3] La nota espressione è tratta da E. Nolte, «Il passato che non vuole passare», in G. E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Einaudi, Torino 1987, pp. 3-10.
[4] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico (1993), tr. it. di G. Gouthier, Einaudi, Torino 2009, p. 105.
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