LESSICO DI ETICA PUBBLICA – ANNO VI Numero 1/2015 – ISSN 2039-2206
Medicina, cura e normatività. Riflessioni introduttive
Gabriele Vissio
La questione medica, insieme a ciò che la riguarda, è divenuta nell’ultimo mezzo secolo una sorta di nevrosi collettiva capace di orientare le vite degli individui e di influenzare profondamente le pratiche sociali, i programmi politici, i sistemi collettivi. Questo ruolo centrale ricoperto dalla medicina è il frutto di quel dispositivo biopolitico che è la medicalizzazione della vita e, soprattutto, della capacità di quello stesso dispositivo di divenire oggetto di interessi e attenzioni diffusi e multifocali. Il secolo XX ha visto sorgere tutta una serie di istituzioni il cui principale interesse era il campo medico come i moderni sistemi sanitari pubblici e privati, gli organismi internazionali e sovranazionali come l’OMS, le associazioni di professionisti sanitari, e così via. Attraverso queste istituzioni la «questione medica» è entrata prepotentemente nell’agenda del dibattito pubblico e politico delle nostre società, e lo ha fatto sotto molteplici forme e punti di vista. In particolare, ed è questo forse il punto più significativo del fenomeno, lo ha fatto attraverso un meta-discorso non meno nevrotico del fenomeno stesso. La medicalizzazione produce innanzitutto un’ansia generalizzata nei confronti della salute e, allo stesso modo, le principali critiche alla medicalizzazione non fanno altro che produrre nuove preoccupazioni. Ovunque si moltiplicano i «discorsi contro il discorso» della medicalizzazione. Corsi universitari dedicati ai problemi della medicalizzazione, master e specializzazioni per professionisti sanitari, nuove figure professionali, convegni, libri, riviste: sono solo alcuni degli strumenti e delle strategie che la società medicalizzata mette in campo dopo aver scoperto la propria medicalizzazione. «Viviamo in un mondo medicalizzato», è banale dirlo; quel che non è banale, però, è che l’esito di questa presa di coscienza sembra aver aumentato, e non ridotto, le energie che la medicalizzazione assorbe quotidianamente dagli individui e dalle strutture sociali. Ciò che deriva da questo quadro è, da un lato, la consapevolezza di una «questione medica» e, dall’altro, una sua immediata frammentazione e suddivisione in una serie di discorsi disciplinari incapaci di identificarne il centro tematico.
Nasce allora il sospetto che un centro non vi sia e che la «questione medica» sia in realtà una complessa rete di «questioni mediche», dipendenti tra loro ma collocate all’interno di uno spazio non omogeneo. Ci sembra però che in questo spazio discontinuo sia possibile individuare, se non un centro assoluto della questione medica al singolare, quantomeno alcuni “poli gravitazionali” attorno ai quali sembrano disporsi e orientarsi le singole questioni particolari. Tra questi due dei principali sono sicuramente costituiti dalle nozioni di «cura» e di «norma».
La nozione di cura è stata a lungo oggetto di una profonda incomprensione all’interno della concreta pratica medica. L’identificazione tra «cura» e «terapia» ha provocato non pochi fraintendimenti sul loro reale significato, lasciando credere che nel «prendersi cura» [to care] non vi fosse altro che un «guarire» [to cure] e nascondendo la possibilità che non tutte le terapie istituissero davvero un’autentica pratica di cura. La cura ha assunto però, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, un rinnovato interesse all’interno del dibattito filosofico, con i pionieristici lavori di Carol Gillian e Nel Noddings e, più recentemente, con le riprese di Virginia Held, Sara Ruddick e Joan Tronto. Il richiamo alla dimensione antropologicamente costitutiva della cura elaborato all’interno del dibattito che si è aperto intorno all’opposizione cure/care ha contribuito negli ultimi trent’anni a mettere fortemente in discussione l’idea di salute veicolata dalle pratiche mediche contemporanee. Proprio questo stesso concetto di salute è stato oggetto di un’altra serie di profonde critiche che, muovendo dal piano epistemologico, hanno messo in luce quanto angusta fosse – concettualmente e politicamente – l’equivalenza tra la salute e la normalità. È questo il terreno di Georges Canguilhem e di Michel Foucault, di Ivan Illich, ma anche quello di Ernesto De Martino e Franco Basaglia. Leggendo i loro lavori la norma, in medicina, appare come un concetto ambiguo, sospetto o addirittura pericoloso. Questo perché la norma, che pure può apparire una nozione a prima vista utile, sembra destinata a farsi normalizzazione, standardizzazione, controllo. A partire da questo sospetto sono state elaborate alcune delle più acute e potenti critiche alla medicalizzazione e si è saputo determinare con precisione la profonda permeabilità di questo dispositivo di sapere/potere.
Questi due poli, la cura e la norma, nella loro capacità di orientare una serie di questioni, permettono di configurare due modi di porre il problema tra loro compatibili o, piuttosto, polarizzare la questione medica intorno all’uno o all’altro di questi centri gravitazionali significa compiere due operazioni inconciliabili e intraducibili? L’idea alla base di questo numero della rivista “Lessico di etica pubblica” è che la risposta da dare a questa domanda sia la prima, a patto tuttavia di alcune condizioni. In primo luogo, infatti, sarebbe un errore pensare a una dialettica meramente contrappositiva, dove a un «cure» normalizzante si volesse contrappore un «care» privo di normatività interna. D’altro canto, vedere come tratto comune del discorso sulla cura e di quello sulla norma in medicina il semplice fatto di avere come comune bersaglio critico e polemico gli eccessi della medicalizzazione contemporanea appare decisamente troppo poco per giustificare qualcosa di più di un mero accostamento. La nozione di «cura», lungi dal rilevare semplicemente una semplice carenza di umanità all’interno della pratica medica, rappresenta una proposta di ripensamento complessivo della questione antropologica e di quella sociale. La filosofia della cura, infatti, appare una proposta promettente nella misura in cui in essa si profila una proposta capace di rendere conto della possibilità di un’ontologia sociale che non dica solo e immediatamente l’effetto normalizzante che le relazioni hanno sull’individuo. La «cura» rappresenta infatti la possibilità di un legame sociale positivo all’interno del quale gli individui possano reperire le risorse per resistere alle diverse forme della normalizzazione sociale. D’altro canto la norma, come ha saputo mostrare Georges Canguilhem, non è solo normalizzazione ma anche normatività, capacità interna alla vita di organizzare e riorganizzare sempre se stessa e il proprio ambiente. Questo tratto positivo della normatività emerge proprio all’interno della critica alla salute come normale. Non si può, infatti, sostenere semplicemente che non esista alcuna norma, che non vi sia polarità all’interno della vita: è anzi proprio l’esperienza della malattia che pone l’individuo dinanzi all’evidenza del fatto che non tutto è indifferente, neutro, indifferenziato. Occorre però sostenere che la normatività del vivente è data dalla vita stessa: è la vita che conferisce valore, che si orienta normativamente, che polarizza. Da questo punto di vista la riflessione sulla normalità/normatività della salute si muove entro l’orizzonte più ampio di una vera e propria filosofia del vivente più che della vita, o di una filosofia biologica piuttosto che una filosofia della biologia.
La cura e la normatività emergono come due punti di partenza per qualcosa di più ampio dello spazio in cui si collocano le «questioni mediche», e proprio per questa ragione esse hanno buone ragioni per rivestire quel ruolo di poli gravitazionali che abbiamo segnalato. Alla cura e alla norma fanno capo due programmi – quello di un’antropologia sociale e quello di una filosofia del vivente – i cui fini sono diversi ma non sconnessi. Ripensare che cosa sia l’umano nel vivente richiede una nozione del vivente capace di reggere il progetto di un’antropologia evitando il rischio di forgiare le armi di una nuova normalizzazione, magari anche più pervasiva e potente di quelle che abbiamo già conosciuto.
È in riferimento a questo quadro teorico, complesso e articolato, che si è deciso di proporre, sulle pagine di questa rivista, un numero monografico che mirasse a individuare in esso punti di accesso particolari, più che a proporre una sintesi generale esaustiva. Nel cercare di ordinare i diversi contributi si è scelto suddividere i saggi in gruppi tematicamente omogenei, la cui successione vuole suggerire solo uno tra i molti percorsi di lettura possibili.
La sezione «Questioni» di questo numero della rivista Lessico di Etica pubblica si apre dunque con una serie di contributi volti a individuare, all’interno dell’insieme dei problemi delimitati dalle nozioni di medicina, cura e normatività, alcuni snodi teorici particolarmente interessanti. Il primo di questi riguarda la questione dell’effettiva novità di alcuni problemi sollevati dal progresso tecnico delle scienze biomediche. L’idea che nell’ultimo secolo – in particolare nell’arco di tempo che intercorre tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i nostri giorni – lo sviluppo teorico e applicativo delle scienze della vita e della salute abbia radicalmente mutato le questioni etiche, morali e antropologiche della civiltà occidentale è ormai una convinzione piuttosto diffusa. I contributi di Gereon Wolters e di Jean-François Braunstein fondano le proprie analisi proprio sulla convinzione opposta: tanto nel caso dello human enhancement, oggetto dell’articolo di Wolters, quanto nel caso della bioetica, di cui si occupa invece Braunstein, non ci troviamo dinanzi a problemi radicalmente nuovi, ma a questioni antiche almeno quanto la nostra civiltà. Per ciò che riguarda lo human enhancement, l’attestazione del desiderio dell’uomo di potenziare e migliorare se stesso, al fine di superare i propri limiti fisici e cognitivi, risale almeno al testo biblico, in quel terzo capitolo del libro della Genesi in cui l’uomo e la donna vengono posti dinanzi alla promessa del serpente di «essere come Dio». Secondo Wolters il sogno del superamento dei limiti della condizione umana si traduce nella storia in una vera e propria utopia individuale e collettiva, a partire da Platone e dalla sua «bizzarra idea di allevare gli esseri umani come gli animali». L’enhancement collettivo, in particolare, trova nuove riprese in età moderna in due modelli differenti: la dinamizzazione della Scala Naturae operata da Charles Bonnet, con la sua idea di un miglioramento epocale delle specie, e nel progetto eugenetico su base evoluzionistica di Sir Francis Galton. Ultima variazione sul tema di questo sogno secolare il progetto della posthumanity non rappresenta dunque il frutto di una trasformazione radicale all’interno della nostra civiltà, ma affonda le proprie radici in un’utopia così antica da essere stata collocata, nel racconto biblico, a livello delle origini della stessa umanità. Ciò che è nuovo è la risonanza che le proposte trans- e post-umaniste devono al fatto di essere un prodotto culturale di origine anglofona: questioni originariamente “provinciali” esse, per questa ragione, si sono ritrovate sulla scena del dibattito scientifico internazionale. La bioetica, invece, rappresenta un’esperienza culturale e intellettuale dai natali apparentemente recenti. Braunstein ne ricostruisce la storia delle origini con una analisi dei due iniziali modelli: quello ecologico-globale della «visione del Wisconsin» e quello più orientato alla medicina della «visione di Georgetown». Alla base di queste due visioni si colloca, in ogni caso, la questione della secolarizzazione e del pluralismo, che la bioetica si propone di fronteggiare nel contesto delle pratiche mediche. Per arbitrare le diverse posizioni, allora, la bioetica inserisce un numero crescente di figure che intervengono, al letto del paziente, come esperti a vario titolo. L’idea che soggiace a un tale atteggiamento è che le nuove procedure mediche e i nuovi avanzamenti tecnici siano tali da generare problemi etici così inediti e complessi da essere fuori dalla portata del medico, dell’operatore sanitario e del malato stesso. Ecco allora che urge l’intervento di consulenza e accompagnamento degli esperti, primo fra tutti il bioeticista stesso. Sulla scorta del pensiero dell’epistemologo e storico della medicina Georges Canguilhem, Braunstein oppone una critica a questo tipo di atteggiamento fondata su due momenti. In primo luogo la storia della medicina e la storia dell’etica ci insegnano l’antichità della totalità dei problemi che oggi si pretendono inediti: dal trapianto d’organi, all’aborto, all’eutanasia, alla sperimentazione umana e all’eugenetica. Da sempre il medico e il paziente hanno trovato da sé le risorse etiche per affrontare queste questioni controverse e problematiche: si tratta oggi di riproporre vecchi problemi su scala diversa. A essere nuova è solo l’ansia tecnofobica che soggiace al rinnovato interesse per i problemi dell’etica medica. In secondo luogo, e in conseguenza di questo, la bioetica rappresenta una vera e propria ingerenza della filosofia all’interno del campo della medicina: il “bioeticista professionista”, estraneo alla pratica medica, cerca di innestare all’interno della medicina una certa etica, la sua etica, attuando una vera e propria “invasione di campo”. Il compito della filosofia, però, non è quello di operare l’iscrizione di un’etica all’interno del sapere medico, ma quello di fornire – attraverso una filosofia della medicina – una chiarificazione del significato di questo sapere e delle sue pratiche che non si ponga in nessun modo in maniera prescrittiva. Non avrebbe senso, infatti, sostituire al potere dispotico del medico – ormai in declino – il potere di nuove figure di esperti: è piuttosto necessario che ognuno di noi, medico o paziente, operi una vera riappropriazione dell’etica ritornando a ricoprire il proprio ruolo di agente.
Ivan Cavicchi, nel contributo successivo, offre con grande lucidità analitica proprio un ripensamento dell’agire professionale del medico e dell’operatore sanitario a partire da un nuovo modo di pensare il «giudizio di necessità» in medicina sulla scorta del nuovo ruolo assunto dal paziente all’interno del sistema sanitario. Attraverso un’analitica della necessità e del giudizio in medicina e in sanità, l’autore giunge proprio a ripensare le figure professionali della medicina e della sanità in termini di agenti/autori. In un contesto in cui la pratica medico-sanitaria viene parcellizzata in una serie di compiti ripartiti tra le diverse figure professionali le cui micro-competenze sono garantite da un percorso di apprendimento certificato, diventa necessario ricordare che l’autonomia di giudizio non è data, in primo luogo, da una conoscenza ma in una «capacità del soggetto, sia esso medico o infermiere, che si definisce nei confronti dei limiti che deve gestire» (cfr. infra). Il medico, l’infermiere e, in generale, qualsiasi operatore sanitario dovrebbe definirsi così come un autore ovvero un «intellettuale» che opera il proprio atto di giudizio coniugando autonomia e responsabilità. Ma perché questo avvenga è necessario delineare un articolato processo di riforma del sistema sanitario e dell’organizzazione dei servizi medici professionali che l’autore profila nell’ultima parte dell’articolo.
Anche il saggio di Guido Cusinato offre una prospettiva di cambiamento e di trasformazione, sebbene su di un piano decisamente diverso. Il livello cui si pone il contributo, infatti, non è tanto quello dei sistemi sanitari quanto piuttosto quello dell’antropologia. A partire dalla distinzione, ripresa dal dibattito sull’etica e la filosofia della cura, tra la salute intesa all’interno della dimensione meramente terapeutico-farmacologica del «cure» e quella più ampia e comprensiva del «care», Cusinato prospetta una rielaborazione del concetto di salute sulla base di una «cura del desiderio». Lungi dal rimanere confinato entro i limiti dell’esperienza medica, questa cura del desiderio si colloca all’interno di una concezione che, sulla base delle più recenti proposte dell’antropologia filosofica, recupera un’idea dell’umano come caratterizzato da una costitutiva plasticità. La cura del desiderio diventa allora coltivazione delle emozioni, nella prospettiva di un superamento globale dell’egocentrismo a favore di una nuova costruzione sociale della realtà basata sui diversi livelli dell’«intenzionalità del sentire insieme» (cfr. infra). La dimensione sociale è proprio il punto di accesso attraverso cui il saggio di Sergio Racca riprende il discorso sulla «normalità», all’interno di un attento confronto con il pensiero del filosofo canadese Charles Taylor. La dimensione della normalità sociale, secondo Taylor, si è manifestata nella storia occidentale attraverso una pluralità di immaginari che si sono orientati, di volta in volta, verso due opzioni: il festivo e il disciplinare. Questi due poli mantengono e ripropongono, secondo Taylor, la dicotomia fondamentale tra la dimensione assiale (originatasi nel I millennio a.C.) e quella pre-assiale. A partire da questo quadro teorico emerge, nel testo di Racca, una lettura degli immaginari moderni e contemporanei come tutt’altro che univocamente orientati nel segno del disciplinare, bensì come frutto di una complessa stratificazione e risemantizzazione di un’opzione originariamente plurale.
La sezione «Ricerche» ospita una serie di contributi che, a partire dal tema del numero, approfondiscono e sviluppano alcune tematiche particolari. Un primo nucleo di articoli si concentra sulla nozione di «normatività» e del suo ruolo nella definizione della «salute». Il saggio di Stefano Pilotto, riprendendo le proposte teoriche di Kurt Goldstein e di Georges Canguilhem, offre una critica alla proposta del filosofo della scienza Christopher Boorse di fornire un orientamento alla pratica medica su base biostatistica. Questa proposta, fondata sulla nozione di «progetto di specie», cerca ancora una volta di avanzare un’idea oggettivante di salute e di normalità, incapace di rendere conto della normatività e della plasticità interne al vivente. Il contributo di Iván Moya Diez e Matteo Vagelli si concentra proprio sulla nozione di normatività avanzata da Georges Canguilhem e ne chiarisce la portata teorica al di là della proposta di filosofia della medicina. Oltre a un significato all’interno di una più generale filosofia della vita in cui il concetto di normatività dice il carattere fondamentale dell’attività vivente come instaurazione di valori, la normatività assume un ruolo centrale anche nella riflessione storiografica di Canguilhem, che intende la storia delle scienze come storia normativa. La «normatività» non rappresenta semplicemente il nome di un concetto di volta in volta biologico, epistemologico o storiografico, ma indica un meta-concetto organizzatore, attorno al quale si struttura l’unità dell’articolato progetto filosofico di Canguilhem. Ultimo contributo di questo primo blocco tematico è quello di Gabriele Vissio, che si confronta con le trasformazioni subite in età moderna e contemporanea dal concetto di salute all’interno del più generale processo di medicalizzazione della vita. La medicalizzazione è stata sottoposta, nel corso del Novecento, a una serie di critiche mosse da un’esplicita intenzione de-medicalizzante e dalla rivendicazione nei confronti di un rinnovato «diritto alla salute». Nell’opera di autori come Ivan Illich tali istanze sono state collocate all’interno di un più ampio progetto di de-istituzionalizzazione della società, capace di offrire una critica politica, oltre che epistemologica, delle derive della medicalizzazione. Tale proposta, però, sembra mancare il centro della questione e pare ridursi a una richiesta di diritti incapace, in realtà, di offrire una prospettiva radicalmente diversa sulla salute. È proprio la definizione della salute, come ha invece mostrato Canguilhem, a costituire il nucleo problematico fondamentale del discorso sulla medicina. La proposta di Illich non implica un reale abbandono della concezione tradizionale di salute, quanto piuttosto una sua riduzione o indebolimento, e non elimina in ogni caso l’idea di salute come «stato». La salute, invece, deve essere intesa come qualcosa che ogni individuo, e la medicina con lui, si trova di volta in volta a ridefinire, un «succcesso temporaneo» della vita nella sua lotta contro la «legge degradazione».
I saggi di Monia Andreani e di Maurizio Balistreri offrono invece uno sguardo più diretto su due casi “applicati” del tema proposto. Andreani, dal canto suo, riprende per certi versi proprio la questione della degradazione, offrendo un’analisi tanto attuale quanto interessante sulle questioni etiche ed epistemologiche sollevate dalle diagnosi infauste nelle malattie neurodegenerative croniche e progressive. Tali patologie mettono alla prova la validità epistemologica della Evidence Based Medicine (EBM) e della pratica medica e clinica su essa fondata. Interpretando gli esiti di uno studio sul campo svolta dal gruppo di ricerca in Etica Applicata del Dipartimento di Scienze di Base e dei Fondamenti dell’Università di Urbino, Andreani giunge a una conferma dell’efficacia di un approccio fondato sulla cura e sulla relazione di cura nel superamento delle principali impasse in cui incorre la pratica clinica della EBM. Il saggio di Balistreri si concentra invece su di una versione particolare delle teorie dell’enhancement, concernente la possibilità del «potenziamento morale». Per quanto l’autore consideri, dal punto di vista tecnico, del tutto illusoria e fantasiosa una tale prospettiva, egli nondimeno rileva all’interno di questa illusione una problematica etica interessante. L’idea di un miglioramento morale degli individui e della società implica, come meta teleologica cui il processo di potenziamento deve tendere, un modello di moralità unico e univoco. Il rischio di questo programma è che esso, utilizzando concetti solo apparentemente confinati al terreno descrittivo, ma in realtà dotati di una portata normativa, veicoli l’idea di un miglioramento morale collettivo inteso come normalizzazione del pensiero etico e delle pratiche dei soggetti, realizzato attraverso una forte riduzione del pluralismo del dibattito pubblico sui temi etici.
Chiudono la sezione i saggi di Davide Sisto e di Cristina Rebuffo, entrambi dedicati a tematiche tanatologiche. Il processo di medicalizzazione, infatti, non coinvolge soltanto l’esperienza della malattia ma anche quella della morte. Secondo Sisto il complesso processo di medicalizzazione della morte ha condotto, in conseguenza dei progressi tecnico-scientifici del secolo XX, a una ridefinizione di questa esperienza nei termini di «naturalità» e «artificialità». Attraverso un percorso che comprende, in prima battuta, il dibattito novecentesco sulla definizione dei criteri attraverso cui è possibile determinare la morte (o il tipo di morte) dell’individuo, e che coinvolge un’analisi dell’opera di Xavier Bichat e una ripresa delle riflessioni di Michel Foucault, Jean Baudrillard e altri, Sisto perviene a ricostruire la nascita dell’idea di «morte naturale» come «morte normale». Questa identificazione, ideale e astratta, non rappresenterebbe, secondo l’autore, che una rimozione della morte, una sua sistematica negazione. Non si tratta di sminuire il significato positivo delle acquisizioni tecnico-scientifiche dell’ultimo secolo, né prospettare un ritorno nostalgico a concezioni precedenti; il tentativo di Sisto si configura invece come un ripensamento della dimensione simbolica della morte all’interno della vita stessa, al fine di evitare rigidi riduzionismi e oggettivismi, il cui rischio è quello di rendere incomprensibile il reale sviluppo del decorso vitale. Strettamente connesso alle tematiche dell’articolo precedente, il contributo di Rebuffo ricostruisce, nella prima parte, una breve storia delle strategie che, dall’Antichità all’Ottocento, sono state attuate al fine di sfuggire alla paura della morte. In questa storia che, dai poemi omerici agli uomini del secolo XIX, narra le diverse “fughe” che dinanzi alla paura della morte sono state tentate, e che sono riassumibili sotto il monito: “Ricordati che devi morire!”. L’esperienza novecentesca della morte, e in particolare quella postmoderna, si inscrive invece al di sotto della promessa “Tu non morirai!”. Anche il pensiero di Gabriel Marcel si colloca nell’alveo di questa promessa d’immortalità, ma si orienta verso un significato profondamente diverso da quello che a essa conferisce l’interpretazione postmodernista. Attraverso una critica dell’esperienza del corpo intesa come di un oggetto all’interno della sfera dell’«avere», Marcel propone una rilettura della paura della morte come qualcosa di diverso dalla perdita di qualcosa che si possiede. Se è vero che noi non siamo mai, semplicemente, il nostro corpo, è anche vero che esso non costituisce per noi soltanto un oggetto posseduto tra gli altri. Il corpo, ci dice Marcel, è “soglia” tra l’essere e l’avere. Con la morte, certo, si estingue l’oggetto ma, allo stesso tempo, in essa permane l’essere.
Il numero si chiude infine con la sezione «Recensioni» che ospita la lettura, a firma di Roberto Franzini Tibaldeo, del volume di Ewa Nowak, Experimental Ethics. A Multidisciplinary Approach (2013). Di seguito si rende invece conto del recente lavoro di Jürgen Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia (2015), qui recensito da Francesca Benenati.
Indice
Questioni
G. Wolters, “Voi sareste come Dio”. Un’analisi storica e filosofica dell’ultima mutazione di un sogno secolare: l’uomo aumentato
J.-F. Braunstein, Bioetica o filosofia della medicina?
I. Cavicchi, Il giudizio di necessità in medicina e in sanità nel tempo dei conflitti
G. Cusinato, La formatività antropologica della «care». Salute e cura del desiderio
S. Racca, Pluridimensionalità festiva ed esclusività disciplinare. La lotta assiale e la normalità sociale secondo Charles Taylor
Ricerche
S. Pilotto, Quale normatività? Vita e malattia fra naturalismo e antiriduzionismo
I. Moya Diez, M. Vagelli, L’unità della filosofia di Georges Canguilhem. Dalla norma medica alla normatività storica
G. Vissio, «La vita preferisce l’asimmetria». Ripensare la salute tra medicina e anti-medicina
M. Andreani, Le sfide della medicina di fronte alle diagnosi infauste nelle malattie neurodegenerative croniche e progressive: tra questioni epistemologiche e dilemmi etici.
M. Balistreri, La medicina e il dogma della normalità nel dibattito sul potenziamento morale
D. Sisto, “Stroncato da un male incurabile”: come la morte tecnica ha prevalso sul morire
C. Rebuffo, «Ricordati che devi morire!»; «Tu non morirai!». Terapie e strategie dinanzi alla paura della morte
Recensioni
[R. Franzini Tibaldeo] E. Nowak, Experimental Ethics. A Multidisciplinary Approach
[F. Benenati] J. Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia
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