RECIPROCITÀ (Michele Rosboch, Chiara Michelis)
(fr. réciprocité; ingl. reciprocity; ted. Gegenseitgkeit)
Storia
Il concetto di reciprocità acquista rilievo, tradizionalmente, in rapporto alla condizione giuridica dello straniero. Secondo il diritto internazionale, l’applicazione del principio di reciprocità da parte dello Stato A comporta il riconoscimento agli stranieri dello Stato B esclusivamente dei diritti che lo Stato B riconosce ai cittadini dello Stato A. In genere il concetto si prospetta in tre diverse accezioni: la reciprocità legislativa (le leggi dello Stato A, a prescindere da un trattato internazionale, vengono applicate in favore dei cittadini dello Stato B a condizione che le leggi di questo facciano altrettanto), quella diplomatica (il trattamento a favore si applica in base ad un trattato internazionale), quella effettiva (che fa riferimento alla prassi concretamente seguita nei due Paesi). Alcuni preferiscono distinguere tra reciprocità formale e sostanziale (G. Baralis): la prima presuppone il paragone tra due fonti normative, internazionali o interne (reciprocità diplomatica e legislativa), la seconda prende in considerazione l’applicazione in concreto delle norme, con riguardo anche alla giurisprudenza e alla prassi amministrativa (reciprocità effettiva o di fatto). Il concetto di reciprocità può essere inteso in un’accezione negativa, come una sorta di ritorsione nei confronti dello Stato da cui non viene prevista, oppure positiva, come incentivo per gli Stati a venirsi incontro e a collaborare per la tutela dei rispettivi cittadini all’estero.
Nel mondo antico e durante l’alto medioevo non vi si faceva ricorso. La dottrina di diritto comune, e in primis Bartolo da Sassoferrato, si era posta il problema degli Statuti comunali da applicare allo straniero, giungendo a conclusioni generalmente condivise: mentre alcune disposizioni, come quelle di diritto penale o quelle relative agli status dei singoli e all’ordine pubblico, si applicavano anche agli stranieri, altre richiedevano criteri diversi. Sicuramente difficile era la condizione dello straniero in ambito successorio, dove si riducevano o venivano a mancare del tutto garanzie ad hoc, e veniva applicato frequentemente il cosiddetto diritto di albinaggio, che limitava la capacità del de cuius a vantaggio del signore locale.
L’intensificarsi degli scambi commerciali contribuì al superamento di una concezione esclusivamente territoriale delle leggi e all’affermazione del principio di reciprocità: i sovrani assoluti concordavano la medesima condizione giuridica dello straniero nei rispettivi territori tramite trattati bilaterali, salvo ritenersi di fatto esonerati dalla loro osservanza quando i rapporti con l’altro Stato risultavano compromessi.
La Rivoluzione francese, in virtù del principio di eguaglianza e degli ideali universalistici di cui si riconosceva portatrice, si dichiarò ab origine contraria al criterio della reciprocità nei rapporti internazionali. Tuttavia l’ascesa dei nazionalismi e l’insuccesso della linea francese presso gli altri ordinamenti portò all’adozione del principio nell’articolo 11 del Code civil napoleonico, secondo cui “L’étranger jouira en France des mêmes droits civils que ceux qui sont ou seront accordés aux Français par les traités de la nation à laquelle cet étranger appartiendra”. Il dettato legislativo venne trasposto nel Codice civile, in vigore nel Ducato di Lucca a partire dal 30 marzo 1806 («Lo straniero godrà nel Regno de’medesimi diritti civili ai quali sono o saranno ammessi gl’Italiani, in vigore dei trattati, della nazione a cui tale straniero appartiene»); si può anzi affermare che trovò accoglienza presso tutti gli ordinamenti italiani preunitari, con la sola eccezione del Granducato di Toscana.
In questo panorama giunse ancora più singolare l’opzione del Codice civile italiano del 1865, che decise di abbandonare il principio di reciprocità e di porre sullo stesso piano – unico caso tra gli Stati europei – cittadino e straniero, relativamente al godimento dei diritti civili. L’articolo 3 delle disposizioni preliminari risulta semplice ed inequivocabile: «Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini». Il motivo di tale svolta, isolata e “ molto ardita” (J. Mattei), fu politico e ideologico: si voleva innanzitutto mostrare una particolare apertura verso gli stranieri di nazionalità italiana, in primis veneti e romani. La spinta giungeva soprattutto da quegli ambienti liberali che ritenevano così di porsi all’avanguardia rispetto agli altri Paesi europei, nella speranza – se non nella convinzione – di divenire modello di riferimento.
Determinante risultò l’apporto di Pasquale Stanislao Mancini che, con la sua nota prolusione alla facoltà di giurisprudenza di Torino nel 1851, “Della nazionalità come fondamento al diritto delle genti”, difendeva il diritto di ogni nazione a costituirsi in Stato, proclamando il dovere di rispetto reciproco tra Stati nazionali: questo si concretava innanzitutto nel riconoscimento dei medesimi diritti civili sia ai cittadini che agli stranieri. Tuttavia le aspettative liberali erano destinate a restare deluse: la scelta del codice civile italiano non ebbe il seguito sperato e l’Italia si trovò in maggiore difficoltà nel rivendicare le medesime condizioni per il proprio cittadino all’estero, non potendo avvalersi nei confronti dell’altro Stato della condizione di reciprocità, dal momento che lo straniero risultava tutelato nell’ordinamento italiano già ipso facto.
Fu questo il motivo principale del ritorno al principio di reciprocità nel codice civile del 1942, come si evince anche dalla relazione del Guardasigilli al progetto definitivo («la disposizione dell’art. 3 del codice ha rappresentato un motivo di debolezza per il Governo nei rapporti internazionali ogniqualvolta si è trattato di ottenere agevolazioni per i cittadini italiani all’estero»).
L’articolo 16 delle preleggi e gli sviluppi successivi
L’articolo 16 delle cosiddette “preleggi” del Codice civile stabilisce che «lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità e salve le disposizioni contenute in leggi speciali. Questa disposizione vale anche per le persone giuridiche straniere». Con la decisione di conservare la formulazione dell’articolo 3, con la semplice aggiunta del principio di reciprocità e di ulteriori precisazioni – di minore rilevanza – relative alle leggi speciali e alle persone giuridiche, è stato così restituito un peso sostanziale e determinante alle clausole dei trattati bilaterali tra l’Italia e gli altri Paesi.
L’interpretazione dell’articolo e il suo coordinamento con la Costituzione hanno sollevato diverse problematiche. Secondo la dottrina prevalente, la norma si riferisce a chi non ha la cittadinanza italiana e non viene applicata agli apolidi e ai rifugiati. Ha destato particolare interesse l’individuazione dei “diritti civili”: si ritiene che questi coincidano con la capacità giuridica di diritto privato, in base alla quale il soggetto titolare può esercitare i diritti soggettivi che sin dalla nascita gli spettano. Sarebbero esclusi invece i diritti politici (in sostanza, il diritto di elettorato attivo e passivo, il diritto di accesso ai pubblici uffici o alle cariche elettive, la libertà di associazione a scopo politico), riservati soltanto ai cittadini. Un ultimo aspetto riguarda il significato del termine “reciprocità”: in questa disposizione i più ritengono che si tratti di reciprocità “effettiva” (o “di fatto”). In base all’evoluzione della giurisprudenza, per accertare la condizione di reciprocità non è necessario rintracciare la medesima disciplina in entrambi gli ordinamenti (reciprocità “punto per punto”), ma è sufficiente che le due discipline siano nel complesso analoghe (“reciprocità generica”).
Ha sollevato alcuni interrogativi il rapporto tra questa disposizione e l’articolo 10, secondo comma, della Costituzione italiana («La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali»). Secondo una parte della dottrina ne deriverebbe l’equiparazione tra cittadini e stranieri, con la conseguente abrogazione dell’articolo 16 delle preleggi (La Pergola, Barile e Cassese); altri al contrario ritengono che l’articolo 10 non apporterebbe alcuna innovazione, dal momento che l’osservanza dei trattati internazionali costituirebbe “una semplice conseguenza” della loro obbligatorietà (Balladori Pallieri). La tesi prevalente è a favore della compatibilità tra condizione di reciprocità e Costituzione, in base al fatto che l’articolo 10 non esclude il ricorso alla condizione di reciprocità in assenza di norme internazionali. Il principio di reciprocità viene invece limitato dagli articoli 2 e 3 della Costituzione (che sanciscono rispettivamente il godimento dei diritti fondamentali a tutti coloro che si trovano in Italia e il principio di eguaglianza tra cittadini, quest’ultimo esteso dalla Corte Costituzionale anche agli stranieri, fatte salve le diversità di trattamento “ragionevoli”) e dalle norme di diritto internazionale che hanno carattere prevalente. E’chiaro che i diritti fondamentali dell’uomo risultano garantiti a tutti, indipendentemente dalla cittadinanza.
All’articolo 16 sono state apportate modifiche significative attraverso il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero, peraltro non applicato ai cittadini dell’Unione Europea (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, attuato con il decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, modificato dalla legge n. 189 del 2002).
La legge afferma espressamente che lo straniero gode dei diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dal diritto internazionale. Inoltre, il cittadino extracomunitario che soggiorna in territorio italiano e risulta titolare della carta di soggiorno o di un permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato, di lavoro autonomo o per motivi familiari, si vede riconoscere i diritti civili che la legge italiana prevede per i cittadini italiani a prescindere dall’esistenza della condizione di reciprocità. Se invece lo straniero è privo di un titolo di soggiorno come quelli suddetti, o si tratta di una persona giuridica, si adottano criteri differenti ispirati al principio di reciprocità: nel caso in cui il Paese di cui lo straniero ha la cittadinanza abbia stipulato con l’Italia un accordo sui diritti civili non si rende necessaria la verifica delle condizioni di reciprocità per le materie oggetto dell’accordo; in assenza di un trattato bilaterale ad hoc, invece, è demandato al Ministero degli Esteri il compito di fornire agli uffici pubblici e ai notai i criteri per accertare la condizione di reciprocità. La ratio legis è sostanzialmente quella di favorire lo straniero che lavora in Italia e che risulta minimamente inserito nella vita sociale del Paese.
Il coordinamento tra la legislazione successiva e l’articolo 16 non è privo di difficoltà interpretative e di applicazione. Il principio di reciprocità non viene espunto dall’ordinamento italiano, riguardando ancora enti o persone giuridiche straniere e gli stranieri senza regolare permesso di soggiorno; la maggior parte della dottrina, tuttavia, concorda nel ritenere che il suo ruolo nei rapporti internazionali stia perdendo rilevanza (G. Baralis).
Ulteriori e più recenti disposizioni hanno, invece, preso in esame la disciplina dell’immigrazione clandestina, inasprendo le sanzioni per le tipologie di reato legate a tale fattispecie, in un contesto normativo ed istituzionale assai complesso ed n rapida e continua evoluzione.
Michele Rosboch, Chiara Michelis
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