RESPONSABILITÀ (Roberto Franzini Tibaldeo)
(fr. responsabilité; ingl. responsibility; ted. Verantwortung)
I. Studio etimologico
Nella lingua italiana il sostantivo responsabilità deriva dall’aggettivo responsabile, termine utilizzato dapprima in ambito politico e del diritto pubblico, con riferimento a soggetti investiti di potere. Successivamente l’uso si è esteso agli altri settori del diritto e all’ambito della morale. L’aggettivo responsabile deriva a sua volta dal latino “respondēre” (assicurare a propria volta, rispondere a voce o per iscritto, replicare, ribattere, dar consigli, corrispondere, star di fronte, esser contrapposto, rispondere alle esigenze, agli impegni, o ai desideri) e “responsāre” (“responsum dare”). Sia respondēre sia responsum sono composti della particella re- (che nei composti sta talvolta a indicare l’azione contraria, dunque indietro, di contro, di nuovo, ecc.) e del verbo spondēre (promettere, obbligarsi, dare la propria parola, dare garanzia, promettere in matrimonio), da cui – per esempio – sponsĭo e sponsum (promessa solenne, obbligazione reciproca, garanzia).
Si parla dunque di responsabilità in più ambiti – giuridico, morale, politico – e ci si riferisce comunque sempre ad azioni, di cui l’agente deve assumersi (o di cui rivendica) la paternità o di cui assume le conseguenze (questo aspetto è, chiaramente, rilevante in ambito giuridico).
Il tedesco Verantwortung (onere, carico, peso – in senso figurato –, consapevolezza, responsabilità) presenta una composizione che richiama le considerazioni appena fatte per la lingua latina: a) il prefisso ver-, di per sé privo di significato, viene utilizzato come rafforzativo della radice del verbo cui è premesso (in questo caso antworten); b) il sostantivo Antwort, risposta, riscontro. A sua volta Ant-wort, significa letteralmente parola-contro, cioè risposta, laddove il prefisso ant- ha all’incirca lo stesso significato di altri prefissi, quali ent- o gegen-. In effetti, Antwort è sinonimo di Respons (di derivazione latina) e di Entgegnung (si noti che entrambi questi sostantivi presentano somiglianza anche etimologica con Antwort).
Il termine responsabilità (così come l’idea di azione responsabile che quel concetto formalizza) indica dunque il fatto che le azioni umane generano conseguenze di cui il soggetto agente può essere imputato, cioè ritenuto responsabile. Conseguentemente egli, mediante la propria azione, si assume l’incarico (la responsabilità) di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. Si intravede però anche un’ulteriore dimensione della riflessione filosofica ed etica, allorché si noti (a partire dal tratto oppositivo dell’analisi etimologica del tratto “oppositivo” dell’analisi di Ant-wort, Re- spons, ecc.) come il concetto di azione responsabile non si esaurisca unicamente con l’esame accurato delle conseguenze delle azioni proprie o altrui, ma possa rinviare al riconoscimento di un’istanza relazionale precedente (o originaria) consistente in un appello proveniente da un’alterità, a cui il soggetto morale decide liberamente di rispondere nella prassi.
II. Excursus storico-filosofico
II.1. Antichità greca e latina
Benché né la lingua greca, né la lingua latina offrano un vocabolo specifico per esprimere i concetti di responsabilità e di esser responsabile, già a partire dai poemi omerici si manifesta con evidenza l’interesse a rintracciare i caratteri specifici dell’agire umano, quegli stessi aspetti che poco per volta delineeranno una teoria della responsabilità.
Si giunge così a indicare tre aspetti delle azioni umane:
- la causa, cioè il soggetto a cui l’azione può essere imputata; la parola greca aition in origine significava imputazione o accusa; però già ai tempi di Erodoto significa soltanto più causa o spiegazione;
- leconseguenzeeglieffetti,lequalirichiedonounresponsoounacompensazione, alla luce dei loro eventuali effetti negativi e inquinanti – espressi con il termine miasma;
- lo stato (nel duplice senso di stato mentale – intenzione – e di compagine statale in cui essa viene compiuta), nella cui seconda accezione rappresenta quell’istituzione che può pretendere dai suoi cittadini di fornire una risposta (ad es. un risarcimento) per le azioni compiute.Rispetto al quadro appena delineato, l’Etica Nicomachea di Aristotele subordina la valutazione delle conseguenze delle azioni alle generali condizioni dell’agire stesso. Il termine utilizzato per esprimere come gli uomini siano responsabili delle proprie azioni è “aitioi”, il cui significato oscilla tra l’“esser causa” e l’“esser responsabili”. Ovviamente, affinché si possa parlare di responsabilità di un’azione, occorre che essa sia compiuta volontariamente, cioè consapevolmente (= conoscendo, cioè, le circostanze nelle quali essa viene compiuta) e senza costrizioni. Prima ancora dunque di prendere in considerazione gli effetti delle azioni umane, esse si caratterizzano già a seconda della propria qualità intrinseca, dipendente dal grado di conoscenza e di “educazione” al bene che si è realizzato.
Al contrario, in altri contesti – quali ad esempio le tragedie greche – il contributo offerto alla chiarificazione del concetto di responsabilità si riassume nell’insegnamento secondo cui le azioni umane producono effetti che eccedono le intenzioni esplicite di chi agisce, poiché – all’epoca come oggi – tra i due aspetti dell’azione (deliberazione ed effetto) a ciascuno è dato riscontrare inevitabilmente un divario.
Il contributo della lingua greca (così come di quella latina) alla chiarificazione della responsabilità deve dunque considerarsi indiretto, non esistendo in queste lingue neppure un vocabolo specifico per esprimere i concetti di responsabilità e di esser responsabile. Notevole e di fondamentale importanza per i secoli futuri è però la riflessione sulle condizioni e i caratteri dell’agire umano, di cui la responsabilità in quanto riflessione sulle conseguenze dell’azione è elemento cardine.
II.2. Il contributo ebraico-cristiano
Se già il pensiero greco evidenzia come la libertà sia la condizione fondamentale della responsabilità, il profondo ripensamento condotto dall’ebraismo e dal cristianesimo del primo concetto non può non riflettersi anche sul secondo. Con la religione ebraico-cristiana, infatti, l’essenza della libertà umana non va rintracciata tanto nella dimensione “politica”, quanto piuttosto nella dinamica relazionale tra il singolo esistente e il Dio della rivelazione. Dio infatti si offre all’uomo, senza però imporsi. L’amorevole rispetto di Dio, che pone l’uomo dinanzi alla possibilità di scegliere, spalanca l’orizzonte antropologico della libertà e pertanto si colloca a fondamento di essa.
Le novità di tale impostazione appaiono con evidenza sia rispetto al pensiero classico, il cui concetto di libertà è relegato alla sfera politica dell’agire umano, sia rispetto a quello ellenistico, restando a quest’ultimo preclusa la dimensione relazionale dell’esperienza umana della libertà.
Conseguentemente, la religione ebraico-cristiana inaugura una svolta anche per quanto riguarda il concetto di responsabilità, di cui emerge il senso relazionale e responsivo (testimoniato linguisticamente dal respondĕo latino). L’appello di Dio alla libertà è infatti un appello affinché l’uomo risponda alla Sua chiamata amorevole alla realizzazione dell’autentica e piena libertà. Chiamato dall’Alterità che si prende cura di lui, l’uomo si scopre attore all’interno di una dinamica la cui dimensione verticale (il rapporto con Dio) è posta a fondamento di quella orizzontale (storica, sociale ed etica), in cui l’essere umano è coinvolto come persona che, a sua volta, si prende cura di altri e del mondo, e contemporaneamente come colui che, avendo bisogno dell’altro, gli rivolge le proprie richieste.
II.3. Età moderna
Con l’avvento della modernità vengono portate alla luce e tematizzate due figure concettuali prima assenti dal panorama culturale e filosofico: il soggetto e il cittadino, il primo in relazione all’antropologia e alla gnoseologia, il secondo in relazione alla politica.
Conseguentemente, il concetto di responsabilità assume significati che, a seconda dei pensatori e delle correnti, tendono per lo più a configurarsi, in ambito etico, come attenzione per le conseguenze delle proprie azioni e, in ambito politico, come responsabilità dinanzi a compiti e ruoli sociali affidati al cittadino (modello affidatario di responsabilità). Occorrerà tuttavia attendere il XX secolo per una tematizzazione della responsabilità, da un lato, secondo un modello etico-dialogico e, dall’altro, in chiave collettiva e politica (a partire da Max Weber). Prima di giungere però al XX secolo, occorre dapprima seguire lo sviluppo storico di idee ed elementi rilevanti per la comprensione della novità della responsabilità in età contemporanea.
A dimostrazione, ancora una volta, di come il discorso intorno alla responsabilità non possa prescindere da una riflessione intorno alla libertà umana, identificandosi anzi in epoca moderna per lo più come l’alter ego umbratile e implicito di essa, si può far riferimento al pensiero di David Hume. Spostando l’attenzione della propria indagine sui sentimenti morali interni (carattere, passioni, affezioni) coinvolti nella determinazione della libertà, egli indirizza pertanto la riflessione intorno alla responsabilità verso due direzioni tra loro convergenti: l’analisi delle nozioni morali – tra cui la responsabilità – procede verso una interiorizzazione delle medesime, finalizzata però al reperimento e alla chiarificazione di quella “base naturale” su cui far poggiare – anche dal punto di vista della possibilità di valutare le azioni e le loro conseguenze – l’esame della realtà intersoggettiva (e politica) umana.
Rispetto alla riduzione empirica di libertà (e responsabilità) operata, tra gli altri, da Hume, René Descartes, Baruch Spinoza e Gottfried Wilhelm Leibniz riaffermano risolutamente la rilevanza metafisica dei medesimi concetti. Se però, nel caso di Spinoza, la meditazione intorno alla libertà raggiunge profondità sconosciute agli empiristi, essa è comunque mossa dall’intento primario di mostrare come la libertà fenomenologica sia fittizia. A esplicitare in qualche modo le conseguenze problematiche implicite in questa impostazione, è Leibniz, che si trova dinanzi al problema di spiegare l’accordo tra la libertà metafisica (ovvero la non necessità logica del mondo) e i concetti cristiani di libertà individuale e responsabilità personale, fondati sul concetto di monade intesa come anima. Come è noto, questo problema investe direttamente le questioni di Dio e del suo operato, di cui occorre in qualche modo giustificare l’accordo con la verità metafisica. Ai fini del presente discorso, è interessante osservare come Leibniz si mostri in qualche modo più sensibile di Spinoza (ma, come vedremo, anche di Kant) alla rilevanza fenomenologica delle esperienze di libertà e responsabilità, riconoscendo loro una certa consistenza filosofica.
Sebbene non tratti esplicitamente della nozione di responsabilità, se non nei termini dell’imputabilità, la riflessione di Immanuel Kant rappresenta un punto di riferimento rispetto a cui il pensiero filosofico successivo non può prescindere. Si è appena fatto cenno all’atteggiamento filosofico dualistico che tende a separare il piano degli accadimenti sensibili rispetto a quello del significato metafisico o più propriamente filosofico. Nel caso di Kant, l’assunzione di tale atteggiamento è motivato dalla necessità di oltrepassare il darsi concreto ed esperienziale della libertà per accedere alla sua dimensione “categoriale”.
Analogamente a tale ripiegamento dell’etica kantiana a livello noumenico, anche la responsabilità segue un percorso analogo. Ne consegue in primo luogo una tendenza – da cui origineranno le cosiddette etiche “deontologiche” o “dell’intenzione” – a privilegiare, nella valutazione della moralità delle azioni, quasi esclusivamente l’intenzione a scapito delle conseguenze fenomeniche ed effettive dell’agire umano. In secondo luogo, percorrendo questa via, si limita notevolmente ogni declinazione in senso dialogico della nozione di responsabilità, la quale è stata risolta nel dialogo interiore oppure confinata al solo campo della legalità, vale a dire del diritto o della politica (cfr. Metafisica dei costumi, 1797). Quel che in definitiva resta della responsabilità è un modello concettuale interamente incentrato sulle nozioni di imputazione, dovere, individuo singolo, dominio delle azioni e previsione degli effetti di queste ultime.
II.4. Età contemporanea
Dal punto di vista del percorso storico che stiamo sinteticamente delineando, l’età contemporanea si apre dunque con quel processo di profonda rivisitazione del concetto di responsabilità che condurrà, in primo luogo, a rivalutarne il radicamento nella concretezza storica dell’esperienza umana e, in secondo luogo, a mostrarne il potenziale critico rispetto ai complicati processi che segnano la tarda modernità.
Collocata nell’ambito della complessiva rivalutazione post-hegeliana dell’irriducibile finitezza dell’esistenza umana, la riflessione di Søren Kierkegaard intorno alla nozione di responsabilità, benché tenga conto della duplice valenza (interiore e interpersonale) di quest’ultima, si svolge nel segno di una declinazione relazionale di tale concetto, che esprime pertanto il legame dell’uomo (il Singolo) con l’Assoluto. L’individuo è dunque responsabile sia della propria relazione con il Trascendente, sia della qualità del proprio avvenire nell’eternità. La vita del singolo deve svolgersi nella consapevolezza dell’assoluta responsabilità che ha dinanzi a Dio. Questa si configura pertanto nei termini di una risposta esistenziale e consapevole alla domanda rivoltagli dall’Assoluto. Sia le questioni del lavoro e della realizzazione professionale, sia quelle dell’amore per il prossimo vanno pensate nei medesimi termini di una dinamica della responsabilità che lega i poli dell’umano e dell’Assoluto.
Anche Friedrich Nietzsche sembra voler del pari condurre una revisione delle nozioni di soggetto etico e di responsabilità. Egli però insiste su due aspetti: da un lato, evidenzia le modalità secondo cui la morale corrente nasce e si impone socialmente e culturalmente (responsabilità come modalità di imbrigliamento del singolo e di violenza esercitata sulla sua individualità); dall’altro, auspica un oltrepassamento di tale situazione mistificata e mistificante. In buona sostanza, Nietzsche rifiuta risolutamente la dimensione presunta “civile” o “politica” della responsabilità, mostrando al tempo stesso come occorra oltrepassarne (überwinden) la mendacia. L’autentica responsabilità deve infatti rappresentare la sovranità e l’autonomia di chi ha la forza e la consapevolezza di esercitarla. Tale è l’individuo “sovramorale”, il solo al quale “è consentito promettere”, e ciò in nome della propria libertà da vincoli eteroimposti (Genealogia della morale). L’individuo sovramorale è infatti l’unico in grado di farsi garante di se stesso.
Tuttavia, al di qua della realizzazione effettiva di tale superamento (Überwindung), la critica di Nietzsche ha svolto una funzione corrosiva dei capisaldi dell’etica convenzionale, fondata sulla possibilità di identificare il soggetto autore dell’azione morale. L’attiva corrosione della nozione tradizionale di “soggetto” operata dai “maestri del sospetto” obbliga infatti i pensatori del XX secolo a ripensare le questioni etiche (compresa la responsabilità) secondo una nuova prospettiva.
Il primo a compiere tale operazione è Max Weber, a cui si deve un complessivo ripensamento dell’idea di responsabilità che, sganciata dalla nozione di colpa – sia nella sua dimensione “archeologica” e individuale (come avviene in Freud), sia in quella collettiva (Nietzsche) –, può estendersi alla valutazione degli effetti delle azioni nella loro dimensione politica.
Weber mostra come, nel loro sviluppo storico, i fenomeni umani e le scienze in genere si muovano in direzione di una progressiva razionalizzazione e di un crescente grado di autonomia. In tale sviluppo, egli nota come proprio nell’ambito della razionalità pratica tendano invece a venire meno i caratteri di presunta autosufficienza e autonomia della nozione stessa di valore, coincidente con il dover essere. Ne consegue che, nel mondo intellettualizzato e dominato dalla scienza e dalla tecnica, la razionalità tende a metabolizzare il valore e a ridursi a ponderazione e calcolo avalutativo delle conseguenze delle azioni (le conseguenze risultano essere infatti l’unico aspetto conoscibile delle azioni). Per di più, tale calcolo può concernere solamente l’efficacia dell’azione – in quanto oggetto e scopo dell’agire politico –, ma non la verità dell’intenzione (Gesinnung), che rappresenta invece l’oggetto e lo scopo dell’etica assoluta.
L’obiettivo di Weber non è però quello di assecondare acriticamente questa tendenza della razionalità moderna, che tende – a suo avviso – a rinchiudere l’uomo in una “gabbia di acciaio” deprivandolo con ciò delle proprie prerogative. Al contrario, egli si propone di scandagliare teoreticamente l’ambivalenza dell’agire umano – che, com’è noto, viene espressa dalla celebre distinzione, presente in Politica come professione, tra etica della responsabilità (Verantwortungsethik) ed etica della convinzione (Gesinnungsethik) – al fine di sostenere la necessità di integrare l’una con l’altra e di oltrepassare la loro sterile contrapposizione.
A ben vedere, però, date tali premesse, a farne le spese è proprio il concetto di responsabilità, che non ha la possibilità di far valere la propria specificità rispetto alla razionalità strumentale. Infatti, se è certamente vero che l’agire responsabile weberiano non prescinde “dalle valutazioni che tengano conto di certi valori morali, derivanti da un’idea dell’uomo e della sua dignità” (e con ciò Weber intende distinguersi da posizioni meramente utilitaristiche o consequenzialiste), è per altro verso indubbio che «sono le convinzioni a dover sottostare alla valutazione delle conseguenze di una determinata azione» (Nepi 2008, p. 107). L’intenzione weberiana di far convergere le due figure dell’agire umano – operazione condotta, tra l’altro, in nome dell’urgenza di superare gli evidenti limiti del formalismo e dell’astrattezza del kantismo – non riesce però a celare il fatto che le due istanze rimangono tra loro sostanzialmente estranee e, pertanto, che il concetto di responsabilità viene identificato con il criterio strumentale in virtù di cui si procede al computo delle conseguenze esteriori e pratiche (vale a dire scientificamente verificabili) delle azioni (politiche) umane. A farne le spese è dunque la valenza etico-relazionale della responsabilità.
Tra i pensatori che tentano di oltrepassare il dualismo tra etica della responsabilità ed etica della convinzione, si possono citare sicuramente Dietrich Bonhoeffer e Jean-Paul Sartre, nelle cui riflessioni – pur da prospettive molto diverse – la tematizzazione della responsabilità gioca un ruolo di primaria importanza nell’individuare una complessiva struttura antropologica, che viene messa in relazione, rispettivamente, a Dio e all’Essere.
In polemica con l’astrattismo che, ad avviso di Bonhoeffer, domina in larga misura il pensiero etico contemporaneo, la “struttura della vita responsabile” (cfr. Etica) da lui elaborata pone infatti la responsabilità a fondamento di un agire umano concretamente storico, sociale e interpersonale. Riuscendo a tenere insieme le realtà, da un lato, del vincolo esistente tra uomo e Dio e, dall’altro, della libertà della vita personale, la responsabilità mostra una via d’uscita all’isolamento del soggetto etico moderno. Bonhoeffer insiste risolutamente sui due aspetti, responsoriale (già messo peraltro in luce da Kierkegaard) e relazionale, della responsabilità: innanzitutto, l’esistenza umana è da intendersi come risposta totale e impegnata in risposta a e dinanzi alla centralità del farsi uomo di Dio in Gesù Cristo; in secondo luogo, ciascun essere umano è chiamato ad assumersi responsabilità per e dinanzi agli altri uomini, in quanto corresponsabili per il corso della storia loro affidato da Dio.
Nel pensiero di Jean-Paul Sartre la responsabilità conosce tanto una tematizzazione della sua dimensione individuale (L’essere e il nulla – 1943) quanto di quella sociale (Critica della ragione dialettica – 1960). Il recupero della dimensione interpersonale ed eroica della responsabilità è finalizzato a un’esplicitazione del compito dell’uomo, a cui si presenta il dovere di realizzare con autenticità e libertà la propria esistenza. Proprio nell’opera di promozione della propria e altrui libertà si fonderebbe pertanto la responsabilità. Tuttavia, a) essendo venuta meno ogni garanzia metafisica, b) essendo l’essenza pertanto preceduta, da un punto di vista ontologico, dall’esistenza e c) trovandosi così l’uomo assolutamente e interamente responsabile di ciò che è e della forma di vita che egli realizza, tale compito di promozione della propria e altrui libertà rientra totalmente nell’ambito della sua responsabilità. Si può tuttavia osservare come l’accentuazione sartriana del solo lato umano-immanente della responsabilità fallisca nel mantenere aperte le dimensioni responsiva e relazionale della responsabilità in cui, al contrario, quest’ultima più profondamente pare consistere.
Anche il pensiero di Emmanuel Lévinas si struttura intorno al riconoscimento della centralità della nozione di responsabilità, la quale tuttavia prende le mosse da un’istanza filosofica profondamente eterogenea rispetto al pensiero sartriano. In origine, il soggetto non ha a che fare solo con se stesso, come in Sartre, poiché è essenzialmente in relazione con l’altro (sia nel senso dell’Altro che è Dio, sia nel senso dell’altro, inteso come il prossimo), a partire da cui egli si costituisce. È infatti in virtù dell’alterità e della resistenza offerta dall’altro che a ciascuno si apre la possibilità dell’identità con se stesso (e di contro all’altro), della libertà e della responsabilità.
Punto di avvio della riflessione non è pertanto il dato, che si presume evidente, della libertà del singolo (Sartre), quanto piuttosto la paradossale e misteriosa dinamica relazionale che lega l’essere del singolo a quello dell’altro. Questa dinamica si connota però drammaticamente, dal momento che l’altro si impone imputando, mediante un’“accusa” cui non è permesso sottrarsi (pena il venir meno della stessa relazione costitutiva di sé), un compito etico-relazionale. L’altro impone a ciascuno di “rispondere” all’esistenza di quel compito. La responsabilità consiste dunque in un’imputazione che apre la possibilità stessa dell’esercizio della libertà. La responsabilità per l’altro va dunque intesa innanzitutto come un consegnarsi all’altro, per cui il rispondere-all’altro si configura come un rispondere-per-l’altro, nel senso che ci si dona a lui, assumendosene l’esistenza e sostituendosi a lui. La responsabilità richiede pertanto che l’uomo si assuma un “surplus” di responsabilità. Infatti, solo così – afferma Lévinas – si può indurre l’io a rinunciare alla propria tentazione totalitaria e alla propria tendenza ad affermarsi primariamente sopra tutto e contro tutti.
Anche L’essenza della responsabilità (1933) di Wilhelm Weischedel tenta di fare luce sul fenomeno antropologico-originario della responsabilità, muovendosi però all’interno dell’orizzonte dell’analitica esistenziale inaugurata da Essere e tempo di Martin Heidegger. Weischedel intende la responsabilità come il processo decisionale attraverso cui l’essere umano – la cui essenza è dialogica –, può decidere di riconoscere l’altro in quanto tale e di lasciarsi da lui interpellare. Tuttavia, interrogandosi intorno al fondamento della responsabilità, Weischedel pare contraddirsi, allorché individua nella responsabilità di sé (Selbst-verantwortung) la radice, tra l’altro, della forma sociale (l’essere-con-altri) di responsabilità. Appare qui con evidenza la differenza rispetto a Lévinas, per cui – al contrario – si può essere responsabili di sé solo in virtù del fatto che lo si sia primariamente dinanzi a un’alterità, essendo quest’ultima la sola dimensione fondativa possibile. Così come già per Sartre, anche nel caso di Weischedel ci si può pertanto legittimamente domandare in quale misura la responsabilità delineata apra effettivamente all’alterità e invece non cada in una forma di solipsismo dell’io.
A differenza dei modelli di responsabilità fin qui esaminati, le riflessioni più recenti si caratterizzano per una maggiore attenzione alla relazione tra le questioni etiche e la complessità della società contemporanea. Soprattutto lo sviluppo tecnologico, insieme all’ampliamento del raggio d’azione dell’agire umano e alla crescente difficoltà di prevedere con precisione le conseguenze delle azioni collettive, hanno imposto una complessiva e profonda revisione delle etiche tradizionali. Le concezioni etiche che alla fine del XX secolo pongono la responsabilità al centro delle loro analisi vengono infatti generalmente chiamate etiche della crisi, poiché ritengono che i valori della modernità non possano più rappresentare lo scopo dell’uomo, a meno di non procedere a una loro approfondita rivisitazione critica. Queste concezioni non si configurano però come un mero ritorno alla tradizione pre-moderna. Piuttosto, esse richiamano l’attenzione su valori e concetti obliterati dalle tendenze predominanti della modernità, tra cui spiccano ad esempio la costitutiva relazionalità dell’essere umano, ma anche il carattere asimmetrico di determinate questioni etiche, nonché il volto intrinsecamente complesso dell’agire umano. Si tratta – come si è già in parte anticipato – di aspetti essenziali della nozione di responsabilità, la quale non a caso rappresenta uno dei più frequentati fulcri di discussione e di riflessione della ricerca etico-politica degli ultimi decenni.
L’opera a partire da cui si tematizza esplicitamente la questione nei termini appena enunciati è Il principio responsabilità (1979) di Hans Jonas. Come già altri autori prima di lui, Jonas avverte la necessità di allargare le considerazioni etiche intorno all’agire umano ben oltre i confini dell’etica tradizionale. In ciò si registra, ad esempio, una singolare sintonia con il pensiero di Albert Schweitzer. Entrambi ritengono infatti che poiché la vita è il più alto valore, l’uomo sia chiamato non tanto a esercitare su di essa la propria volontà di potenza (è chiaro qui il riferimento di entrambi a Schopenhauer e Nietzsche), quanto piuttosto a compiere le proprie scelte rispettando le altre forme di vita. È dunque necessario che l’etica si occupi non solo dei rapporti vicendevoli degli uomini, ma anche della relazione che lega l’essere umano alla totalità cosmica del vivente. Pertanto, laddove Schweitzer parla di un’etica cosmica della responsabilità dinanzi a ogni forma di vita, Jonas – la cui riflessione si leva a partire dalla crisi ecologica generata dall’agire tecnico globale – insiste maggiormente sul carattere essenzialmente ambivalente dell’agire umano, così come della libertà che ne è la fonte, e pertanto sull’imprescindibilità del dovere morale della responsabilità.
Al fine di prefigurare fattivamente scenari futuri, è – ad avviso di Jonas – essenziale reperire indipendentemente dalla religione un fondamento ontologico dell’agire umano nel mondo, fondamento grazie a cui la riflessione etica finisce per assumere il volto di una teoria generale della responsabilità. Il fondamento viene identificato da Jonas con il fenomeno della vita, la cui essenza consiste in una dinamica di possibilità e forme di vita continuamente rinnovate e che si susseguono senza sosta. L’essere umano si trova in tal modo dinanzi a una stratificazione di compiti etici: innanzitutto, deve riconoscere che la possibilità che esista responsabilità gli si impone come compito e responsabilità preliminari; conseguentemente, deve evitare che le proprie azioni possano causare la cessazione della vita; infine, deve diventare consapevole di come l’istanza ultima, dinanzi alla quale si offre il dovere di essere responsabili, siano le generazioni future, in virtù di cui l’etica della responsabilità si preoccupa di tutelare soggetti che ancora non esistono.
Jonas è poi consapevole di come una trattazione dell’etica collettiva coinvolga necessariamente anche la dimensione politica. Analoga alla responsabilità dei genitori per totalità (o globalità) dell’impegno, per la continuità di quest’ultimo e per l’attenzione rivolta al futuro, la responsabilità del politico consiste in un sostanziale ampliamento di quegli stessi caratteri. Il potere del politico “su” qualcuno viene esercitato “per” (für) i medesimi e in vista del loro bene. Infine, il potere del politico deve guardarsi dalla tentazione di credere utopicamente che l’uomo debba progredire a ogni costo oppure che si debba giungere necessariamente a eliminare l’inautenticità umana. Se l’essenziale ambiguità della libertà umana è un dato ineliminabile, è tuttavia dovere primario di ciascuno (oltreché del politico che ha, in ciò, somma responsabilità) evitare che si rendano necessari ricorsi a soluzioni politiche estreme e non democratiche di preservazione della vita.
D’accordo con Jonas nel recupero della centralità filosofica della nozione di responsabilità, ma contrario al ricorso ad argomenti metafisici, è Karl-Otto Apel, la cui etica del discorso rappresenta uno dei più recenti capitoli della storia della responsabilità qui tratteggiata. Conducendo una profonda revisione della filosofia trascendentale kantiana, Apel si concentra sulla rilevanza, per l’etica contemporanea, del rapporto tra comunità linguistica storicamente esistente e comunità comunicativa ideale, che rappresenta le norme ideali, ossia le condizioni di possibilità, verso cui la prima deve effettivamente e pragmaticamente orientarsi. Alla comunità comunicativa storica si pone pertanto il dovere (che dunque assume il volto di uno scopo) di realizzare le condizioni affinché si dia comunicazione effettiva. L’attuazione storica della norma significa la realizzazione dell’emancipazione dell’umanità. Pertanto, in contrapposizione alla riduzione della weberiana etica della responsabilità al calcolo strategico delle conseguenze, Apel – desiderando coniugare teleologia e deontologia – mostra come l’etica della responsabilità debba essere orientata allo scopo della rimozione degli ostacoli che impediscono al principio discorsivo di realizzarsi. In tal senso, l’azione etica deve svolgersi alla luce dei principi della parità di diritti tra gli individui e della corresponsabilità (Mitverantwortung).
III. Nodi e questioni
III.1. I molti volti del concetto di responsabilità
Sintetizzando quanto emerso dalla trattazione etimologica, così come da quella storico-filosofica, il termine responsabilità indica dunque che le azioni umane generano conseguenze di cui il soggetto agente può essere imputato e ritenuto responsabile. Conseguentemente egli, mediante la propria azione, si assume l’incarico (la responsabilità) di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni.
È però possibile intravedere anche un’ulteriore dimensione della riflessione filosofica ed etica, allorché si noti (a partire dal tratto oppositivo evidenziato dall’analisi etimologica) come il concetto di azione responsabile, non esaurendosi nell’analisi delle conseguenze dell’agire, rinvii al riconoscimento di un appello proveniente da un’alterità che precede l’agente e al quale il soggetto morale può decidere di rispondere nella prassi.
A seguito di una prima ricognizione storico-filosofica, si è intravista la possibilità di analizzare il concetto di responsabilità a seconda del modello interpretativo offerto, oppure dal punto di vista della modalità con cui si articola il suo nucleo responsivo.
III.1.1. Modelli di responsabilità
Sotto il primo aspetto, sembrano emergere i seguenti modelli di responsabilità:
A) Responsabilità causale-imputativa, in virtù di cui è applicabile il modello giuridico dell’imputazione nei confronti di un soggetto, che è causa di un’azione. Condizioni indispensabili dell’imputazione sono intenzionalità e libertà (possibilità effettiva di agire diversamente da come si è agito), oltre a un complesso esistente di norme. In questo senso, essere responsabili significa esser chiamati a rispondere di qualche cosa che si è compiuto e il carattere dialogico del concetto si limita al fatto di esser chiamati a sostenere un confronto.
B) Il modello affidatario, che si esprime nella responsabilità assunta da parte di chi svolge una certa attività (incarico, custodia, compito).
C) Responsabilità antropologica originaria: il soggetto agente è tale in virtù di un’alterità che gli assegna la possibilità di essere autonomo e, pertanto, di poter agire liberamente e responsabilmente. Questo modello di responsabilità è quello che, in senso proprio, innerva il dialogo delle relazioni personali (io-tu).
III.1.2. La semantica del rispondere
Per quanto riguarda il secondo aspetto (quello della modalità con cui si articola il suo nucleo responsivo), il concetto di responsabilità può anche intendersi nei termini di una semantica del rispondere, di cui si distinguono i seguenti aspetti:
A. Il soggetto della risposta
a. Individuo (persona). b. Collettività.
B. La forma della risposta
a. Responsabilità positiva o negativa (a ciò che si è compiuto o omesso, e che si sarebbe potuto o dovuto compiere).
b. Responsabilità retrospettiva o prospettica (per le conseguenze generate da azioni compiute o per quelle attese da azioni future).
C. L’oggetto della risposta
a. Si risponde di sé (responsabilità causale).
b. Ma prima di tutto, si risponde all’altro (rispondere a-): è la modalità più originaria. In questo senso, l’uomo è costitutivamente impegnato in un contesto di risposta a questioni, domande, preghiere, apostrofi, appelli, saluti o segni, addii dell’altro. L’individuazione di tale originarietà è attestata da due fatti: in primo luogo, non si è responsabili (cioè non si risponde di sé e a proprio nome) che davanti a domande o appelli dell’altro; in secondo luogo, la propria identità di agenti responsabili (incarnata nel nome proprio) si costituisce originariamente dinanzi all’altro e per l’altro.
c. Infine, il fatto che si risponda anche davanti a- (davanti a un altro, una comunità di altri, un’istituzione, un tribunale, una legge, ecc.) significa il passaggio a un’istanza istituzionale dell’alterità.III.2. Responsabilità: questioni aperte e nodi concettuali
L’intersezione dei suddetti modelli con i molteplici aspetti della semantica del rispondere consente di mettere a fuoco temi e nodi concettuali attorno a cui si svolge, in relazione alla problematica della responsabilità, il dibattito etico contemporaneo. Tra gli interrogativi che in tal senso emergono, si annoverano i seguenti: in che misura la risposta in cui consiste la responsabilità può dirsi tale in relazione a una domanda proveniente da un’alterità (prossimo, società, natura, trascendenza, ecc.)? Quale significato riveste per il soggetto il riconoscimento che il fondamento di possibilità della propria libertà risiede in tale dimensione appellante? Quale significato riveste, in rapporto alla libertà umana, la dimensione oppositiva (cioè il trovarsi eticamente sempre dinanzi a un altro) della responsabilità?
In particolare, si avrà modo di notare come – dalla precedente tendenza a limitarne l’orizzonte concettuale alla sola analisi delle conseguenze dell’agire umano (§ III.2.1.) – la riflessione in tema di responsabilità degli ultimi decenni abbia esteso il proprio orizzonte problematico, intrecciandosi dapprima con le istanze espresse dal movimento della Rehabilitierung tedesca (§ III.2.2.), per approdare, più di recente, a una ridefinizione in chiave etica della stessa struttura antropologica (§ III.2.3.). In tal senso, oltre alle proprietà di responsività, relazionalità, imputatività e oppositività, evidenziate dalla preliminare ricognizione storico-filosofica, al concetto di responsabilità è dato di proiettarsi verso territori dapprima inesplorati.
III.2.1. La responsabilità per le conseguenze
La tematizzazione della responsabilità coinvolge problematiche centrali in ogni speculazione etica, quali: a) lo statuto della libertà dell’uomo in quanto soggetto individuale agente (libertà, peraltro, disconosciuta, in questi termini, dal mondo greco); b) la natura della razionalità umana in rapporto alle questioni etiche, vale a dire, se l’ambito pratico presenti o meno uno statuto epistemologico specifico rispetto a quello teorico-speculativo, da un lato, e tecnico-scientifico, dall’altro; c) la questione del nesso che lega il concetto di responsabilità alla considerazione delle conseguenze dell’agire.
Come si è visto, il grande avvio novecentesco della riflessione sulla responsabilità a opera di Max Weber si configura come una precisa presa di posizione dinanzi alle questioni appena evidenziate. Tuttavia il limitarsi, al tempo stesso, del concetto weberiano di responsabilità alla sola ponderazione delle conseguenze ha anche svolto una funzione di freno all’esplicazione di altri possibili significati del termine. Colgono pertanto nel segno le critiche di coloro che, nel corso del XX secolo, hanno mostrato l’insufficienza dell’elaborazione weberiana, specie nel caso in cui l’ambizione è quella di collocare la nozione di responsabilità a fondamento di una teoria complessiva della relazionalità e socialità umane (a questo riguardo si vedano, tra gli altri, Hans Jonas e Karl-Otto Apel). Se infatti l’orizzonte dell’indagine viene ristretto al solo prodotto dell’agire (le conseguenze), la nozione di responsabilità non ha alcuna possibilità di illuminare circa l’identità profonda e l’essere del soggetto agente.
Al fine di guadagnare una più soddisfacente nozione di responsabilità sarà pertanto necessario giungere – in ciò guidati da autori, tra i quali spiccano Apel, Ricoeur e Jonas – a una combinazione delle istanze presentate in apertura di paragrafo.
III.2.2. Verso un nuovo concetto di razionalità pratica
Uno dei risultati teorici conseguiti dall’etica filosofica nel corso del XX secolo è di aver richiamato l’attenzione sulla questione dello statuto epistemologico della stessa razionalità pratica. In questo senso, decisiva anche ai fini di una lettura della responsabilità in chiave antropologica è stata l’operazione di rivisitazione e ri- articolazione dell’idea stessa di razionalità condotta a partire dagli anni Sessanta del Novecento dal movimento della “Riabilitazione della filosofia pratica” (Rehabilitierung der praktischen Philosophie), nelle cui istanze si sono riconosciuti a diverso titolo autori come Leo Strauss, Eric Voegelin, Hannah Arendt, Hans-Georg Gadamer e Joachim Ritter.
Dinanzi alla riduzione – operata sull’onda della trionfante modernità scientifica e tecnologica – dell’agire umano a oggetto del «sapere descrittivo, rigoroso, oggettivo, universale, metodologicamente guidato e controllato» (Volpi 1988, p. 115), riduzione da cui sarebbero scaturite la trasparenza e l’ampia prevedibilità delle stesse azioni umane, il movimento della Rehabilitierung rivendica, invece, all’ambito pratico-umano una forma specifica di razionalità da cui questa trarrebbe, da ultimo, la propria consistenza e il proprio senso. In particolare, tale recupero auspica il ritorno a un sapere – sensibile al contesto e a istanze di superiore complessità – in grado di accompagnare e guidare effettivamente l’agire umano.
A conferma del fatto che la pretesa specificità della razionalità pratica può valere come oltrepassamento dell’orizzonte etico weberiano (nonché della sua idea di responsabilità), si può citare Paul Ricoeur, il quale evidenzia i limiti di quella nozione di razionalità meramente strumentale e avalutativa. Con ciò egli evidenzia l’esigenza di oltrepassare, a proposito della fondazione dell’etica in quanto tale, ogni rigida suddivisione di ambiti che in definitiva opponeva, senza riuscire a conciliare, istanze quali la teleologia (aristotelica) del bene e la deontologia (kantiana), l’azione e la moralità, il giudizio di valore (che si esprime intorno al bene, cioè allo scopo dell’azione) e il giudizio normativo (che riguarda il giusto, in quanto forma della moralità). Ad avviso di Ricoeur, occorre pertanto giungere a una «riassunzione dei giudizi di valore, appartenenti alla componente teleologica dell’etica, all’interno del quadro della propria struttura puramente deontologica» (Ricoeur 1987, p. 215).
III.2.3. Significato “responsivo” o “relazionale” di responsabilità
Alla rivisitazione del concetto di razionalità pratica corrisponde, in ambito di riflessione intorno al concetto di responsabilità, un ampliamento e un approfondimento dello stesso. In virtù di tale apertura, la responsabilità si intreccia con le più generali questioni del senso complessivo dell’esistenza umana e dell’agire etico.
In questa direzione, è soprattutto il significato responsivo o relazionale del termine responsabilità (rilevato a partire dall’analisi del respondĕo latino), a mettere in evidenza, da un lato, il radicamento antropologico-ontologico della responsabilità e, dall’altro, come la risposta costituita dalla stessa sia uno degli aspetti qualificanti dell’eticità dell’uomo in quanto tale: l’essere umano è quell’esistente che è chiamato a rispondere liberamente a un appello presentatogli dalla realtà, un appello all’intersoggettività, un appello a lasciarsi interrogare in profondità da richieste provenienti dall’alterità e, conseguentemente, ad agire tenendo effettivamente conto di queste.
La specificazione antropologica che emerge da tale interpretazione si declina poi in senso essenzialmente semiotico-simbolico. È infatti la capacità di agire simbolicamente a offrire all’uomo la possibilità di prendere pragmaticamente coscienza di sé dinanzi a un’alterità. Solo in virtù di tale carattere essenziale si può concepire, da un lato, come l’agire umano sia costitutivamente “politico”, relazionale e linguistico, e, dall’altro, come sia concepibile l’oltrepassamento del solipsismo metodico, gnoseologico ed etico della modernità, senza con ciò rinunciare alla pretesa di una fondazione antropologica di tali ambiti.
All’interno di questo orizzonte si colloca dunque un fascio di questioni imperniate sul tema della responsabilità, dalla cui sintesi si tenterà di evidenziare le principali tendenze del dibattito contemporaneo, nonché di suggerire un possibile itinerario critico che prenda spunto in particolare dalla proposta jonasiana. In particolare, si tratta di tematizzare tesi quali le seguenti: in primo luogo, analizzare il valore fondativo del plesso di libertà e responsabilità; in secondo luogo, giustificare la rilevanza del plesso di libertà e responsabilità ai fini della comprensione dell’endiadi di individualità e alterità; infine, verificare se la nozione di responsabilità complessa possa rivelarsi di qualche utilità nella comprensione della contemporaneità.
A) Libertà e responsabilità: dimensione fondativa
Occorre distinguere i tentativi di fondazione dell’etica in quanto tale dai tentativi di fondazione del giudizio morale e della norma. Se si intende procedere lungo questa seconda linea, la responsabilità può al più assumere, tra i valori etici, una posizione eminente, ma comunque sempre confinata all’interno dell’orizzonte etico dato. Se invece si intende, con maggior ardimento di riflessione, procedere in direzione di una fondazione dell’etica in quanto tale, la responsabilità può – con la nozione di libertà a lei essenzialmente e dialetticamente connessa – valere contemporaneamente come punto di accesso e fulcro metodologico dell’indagine condotta dall’esistente intorno al fondamento di senso della propria esistenza eticamente orientata (cfr. per esempio Jonas).
B) Responsabilità e individualità
Ben oltre la mera considerazione delle conseguenze etiche, è necessario indicare come la responsabilità si intersechi con la questione dell’identità individuale. All’esplicitazione di questo versante della problematica della responsabilità è, tra gli altri, dedito il teologo evangelico Wolfhart Pannenberg. Innanzitutto, egli osserva acutamente che, se a risultare vera fosse la sola prospettiva weberiana (quella, cioè, che fonda la responsabilità sulla sola nozione di “paternità” di un’azione), capiterebbe – tra l’altro – che dinanzi ai divieti (ai quali si ottempera non agendo e non producendo conseguenze) non vi sarebbe in senso stretto responsabilità. Per non incorrere in un simile paradosso a Pannenberg non resta che percorrere una via alternativa e sostenere – d’accordo con Ricoeur – la priorità, nell’essere umano, della coscienza di responsabilità rispetto alla consapevolezza di essere la causa delle proprie azioni.
È indubbio che da un punto di vista antropologico si manifesta una stretta correlazione tra i concetti di responsabilità e libertà. Tuttavia – insiste Pannenberg – è al tempo stesso riduttivo interpretare quest’ultima nei termini di una neutrale «libertà di indifferenza» (Pannenberg 1983, pp. 124-125). Per essere dunque compresa, l’esperienza del plesso dinamico di libertà e responsabilità necessita di una più raffinata prospettiva ermeneutica: quella che verte sull’identità del soggetto agente, in quanto fondata sul rapporto dell’io con se stesso. Il riferirsi dell’io a se stesso non obbedisce però – per dirla con Ricoeur – a una logica egologica (quella che si esprime nell’“idem”), poiché al contrario l’io (in quanto “ipse”) è già essenzialmente aperto e rivolto all’altro, includendolo in sé.
Per questo motivo – afferma Pannenberg d’accordo con Weischedel – da ultimo «ogni responsabilità è responsabilità nei confronti di se stessi» (Pannenberg 1983, p. 128). Del resto, qui non è implicata una libertà formale o di indifferenza, ma “una libertà essenziale (la presenza dell’essere, della determinazione, dell’esser- se-stesso dell’uomo)”, quella cioè «che si presenta come fondamentale per l’esperienza della responsabilità» (Pannenberg 1983, p. 129). Si ha così la conferma che l’identità etica dell’essere umano si costituisce alla luce della coppia concettuale di libertà e responsabilità e, inoltre, che l’impegno etico altro non è che un realizzarsi effettivo e, per così dire, “esteriore” (non più solo “interiore”), in virtù delle norme etiche, dell’autonomo esser-se-stesso.
C) Responsabilità e alterità
Da quanto più sopra affermato, emerge anche il contestuale e costitutivo intreccio della responsabilità per-se-stessi con la dimensione dell’alterità. La definizione di ciò che si può porre come alterità (individui umani, altri esseri viventi non umani, ambiente, divinità, ecc.) costituisce pertanto il primo dei problemi che una teoria della responsabilità deve affrontare. In seconda istanza, la responsabilità si struttura nella dimensione della decisione dinanzi all’alterità, essendo ciascuno responsabile dell’altro davanti all’altro.
Si apre a questo riguardo un ulteriore profilo della questione. Se è vero, infatti, che per essere responsabili occorre interrogare ed esplicitare conoscitivamente i moventi dell’agire, è stato sottolineato come il momento “decisorio” e decisivo della responsabilità richieda un salto con cui l’atto sfugge «cessando all’istante di seguire la conseguenza di ciò che è, ovvero di quel che è determinabile con scienza o coscienza, e dunque si affranca (è quel che chiamiamo libertà), con l’atto del suo atto, da quel che gli è allora eterogeneo; a sapersi: il sapere. Una decisione è insomma inconscia, per quanto ciò possa sembrare insensato, comporta l’inconscio, pur restando responsabile» (Derrida 1994, p. 87). Se però, in merito alla medesima questione, si identifica nell’indecidibile il fondamento della decisione, quasi fosse il fondo oscuro da cui si leva quest’ultima, ecco presentarsi la possibilità di muovere qualche rilievo critico o di evidenziare qualche rischio. Non ultimo quello realmente corso da parte della libertà, che in tale interpretazione pencolerebbe pericolosamente verso un decisionismo a dir poco egologico.
Al fine di uscire da tali ambiguità e dalle possibili ricadute in una vuota autoreferenzialità dell’io, si potrebbe tornare al tema dell’alterità per affrontarlo da un’altra prospettiva, precisamente quella che cerca di far luce sull’appello proveniente dall’alterità e con cui si apre l’orizzonte della libertà individuale. Tale istanza non si presenta secondo una forma preventivamente e schematicamente prescrittiva, poiché, rivolgendosi in tal modo alla libertà, essa in questo caso non farebbe che realizzare la sua sostanziale negazione. Piuttosto – come evidenziato, tra gli altri, da Pannenberg – più in profondità, l’appello mostra al soggetto il proprio volto essenzialmente relazionale e ambivalente (al tempo stesso, eteronomo e autonomo). Inoltre, l’appello si mostra costruttivamente implicato nella dinamica formativa della
fiducia antropologica originaria, che eccede la mera coscienza riflessiva del soggetto, insieme con tutte le certezze di un ego cogito. Infine, il richiamo dell’alterità si connota in senso eminentemente etico, avanzando addirittura la pretesa di superare l’unilaterale dualismo di teoria e prassi: «Chi risponderà mai di un discorso sull’amicizia senza dichiararsi?» (Derrida 1994, p. 266). La risposta cui qui si fa cenno si identifica ovviamente con l’essenza della responsabilità. Per dirla dunque con il teologo Pierangelo Sequeri: «reciprocità e corresponsabilità: la custodia dell’umano che è comune come vertice personale della donazione» (Sequeri 2002, p. 155).
D) La responsabilità complessa
In sintonia con l’elaborazione, per la comprensione della contemporaneità, di teorie della complessità (cfr. gli studi condotti da autori come Edgar Morin e Niklas Luhmann), anche la riflessione etica più recente pare orientata a riconoscere, nel proprio campo d’indagine, la presenza di dinamiche complesse. Queste si manifestano sia ad intra, avendo a che fare con la riscoperta – non più in chiave di una mera antropologia delle facoltà – della stratificata articolazione e concretezza del soggetto etico, sia ad extra, vale a dire in relazione a macro-fenomeni quali l’agire tecnologico e la valutazione delle sue conseguenze (cfr. Jonas), oppure le dimensioni globali dell’agire umano (cfr. Morin).
In particolare, la recente mondializzazione dell’etica ha trovato nella nozione di responsabilità un adeguato partner teorico-pratico in grado di suggerire innovative direzioni di ricerca. La responsabilità di fronte all’altro e la dimensione della corresponsabilità (Mit-verantwortung) sono infatti in grado di lanciare la riflessione etica al di là della mera reciprocità incarnata dalla logica del do ut des, in favore di un’etica del farsi solidalmente responsabili verso terzi, laddove la dimensione dell’alterità si estende all’umanità intera, ivi compresa quella futura. Lo specifico della responsabilità complessa sembra consistere pertanto nella ricerca di un punto prospettico adeguato «per interpretare l’esercizio della responsabilità collettiva e, quindi, per ripensare la politica» (Mancini et al. 1996, p. 218). Resta da domandarsi se tale risultato possa essere guadagnato mediante l’impiego delle categorie etiche elaborate dalla tradizione filosofica occidentale, oppure – come i teorici della complessità sembrano in realtà indicare – se non si debba osare metodologicamente ed epistemologicamente di più.
Roberto Franzini Tibaldeo
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